SASSOLINI

Ci si affeziona ad un vocabolario usuale. Parole di cui si ama il suono, il senso, l’evocazione. Che tornano, girano in giostra. Negli scritti, nei pensieri, nel parlare.

E poi il desiderio di nomi nuovi. Di suonare altri suoni.

Il silenzio di questo blog è stato lungo. Credo non vadano più di moda i blog. Non so cosa va o non va di moda. Sono demodé. Per un periodo però, lontano, molto, ricordo, i blogger erano pop. Qualcuno ce l’ha anche fatta, da lì. – “Ce l’ha fatta”. Ecco una di quelle frasi, che non tornano quasi mai. – Il suono, strettamente connesso al significato, mi inorridisce. L’ultima volta che la sentii pronunciare fu qualche anno fa a Ostuni da un teatrante leccese usandola per descrivere il successo di alcuni suoi colleghi. Non senza invidia, naturalmente. “Quelli ce l’hanno fatta”. Ne rimasi sgomento. Sicuramente perché sono un demodé, e penso dunque che non si debba fare arte per farcela, ma per farla. E che l’invidia non dovrebbe essere sentimento in seno agli artisti. Ma oltre che demodé sono romantico. Un bel guaio.

Stavo parlando di silenzio. Il silenzio di usare parole pubbliche. Il silenzio delle mani. Il silenzio dell’anima per dedizioni altre. O per riluttanza. O per voglia di silenzio. Di viltà. Di non fare voce.

Il silenzio di non dare spiegazioni. Di non giustificare. Di non fare per farcela.

Da stamattina invece ho voglia di dire. E ho voglia di raccontare. Di smascherare. Di dire cosa non si può dire. Voglio cominciare da stamattina. Dal chiuso d’una chiusura comune, come una fossa, una fossa comune, seppelliti da troppo, senza toccarci, senza respirarci, senza fare processioni o baldorie o teatro. Rimasti dietro gli schermi a masturbarci di illusioni, credenze, flashback.

E allora scrivo. E dico. E racconto. E comincio con il farlo di me. Per dovere di gioco.

Vi voglio raccontare un fattarello. Per dire cosa non so. Ve la vedete voi. Un fattarello strano. – Quante volte vi hanno detto di essere strani? –

Fummo colpiti, in famiglia, da una ignominia gravosa: questioni legali fortunatamente concluse in fumata bianca, come doveva essere, perché vittime di azioni ritorsive di potenti, in fallo, che volevamo consegnare alla giustizia. Appartengo ad una famiglia proletaria, fiero. Una famiglia di radici socialiste e operaie – per ramo materno – e contadine e combattenti – per ramo paterno. A casa mia si mastica pane e rispetto. L’onore dell’essere uomo o donna perché tali. Ha fatto visita tra le nostra mura la sfortuna, la malattia, la vittoria, il successo, il denaro e la miseria, la cattiveria e la benevolenza, la maldicenza e la fama. E nessuna tempesta ci ha travolti. Nemmeno la piccola borghesia ha attecchito il suo morbo. A testa alta abbiamo vissuto. E goduto. E pianto.

Allora ci ribellamo a potentati che gestivano la cosa pubblica in modo osceno: un capo defraudò del lavoro mia madre per darlo ad una sua concubina. Seguirono tentativi di resa giustizia andati in malora per la goffaggine di qualche avvocatuccio di quartiere. La vendetta non si fece attendere. Scagliata contro la prole. Modalità mafiosa. I figli vittime di affari giudiziari – di cui eravamo completamente ignari e scevri – che per anni ci sono stati sulle teste, spade di Damocle. E se non avessimo avuto la capatosta… se non avessimo avuto la capatosta…

Ma non è questa la storia. Un erudito professore poeta, erede di Scanderberg (castriota), abitante del pollino e ricoverato in marina per fallimenti ripetuti e demenza senile, un giorno decise che la faccenda giudiziaria – finita ovviamente con il riconoscimento di innocenza totale – doveva essere oggetto di presa visione. Mandò un messaggino wazzap (non so come si scrive e lo scrivo come lo penso) all’allora mia “suocera” in cui la erudì di questa vicenda. Sdegnoso. Sprezzante. Attribuii lo scopo di questo gesto, per cui usarne aggettivazioni sarebbe superfluo e riduttivo (il termine che si avvicina di più è “schifoso”), ad un invaghimento anziano per la figlia della mia ex suocera. Attribuii…perché si è abituati alla comprensione, altro atto di rispetto ereditato in famiglia, perché si è abituati ad andare verso l’altro, entrarci, ascoltarlo. E per dare senso ad un gesto crudele. Maligno. Malvagio.

Caro professore, che ti cingi il capo di alloro e mascheri il tuo squallore con parafrasi e versi e finte sembianze, non è la rosa sgualcita a fare perdere senno e sonno né l’entusiasmo di una giovane ingenua, riconoscente. Né l’ostentare cultura, parola che affiancata al tuo nome fa rabbrividire. è, invece, che ti alberga in petto un animo tiranno, mefistofelico, poco degno dei tuoi avi arbereshe, poco degno dell’umano. E non illuderti se fai breccia in menti borghesi innamorate del “titolo”, o affascinate dalle cazzate che crei, perché sulla tua fronte è stampato cubitale quello che sei. Una parola che ha anche un odore, un olezzo. E non tocca a me erudire il popolo delle tue fattezze, sono evidenti.

Questa è la storia di stamattina. Una storia di confine. Di periferia. Periferia umana. Significa? Credo di sì. Ma questo lo decidete voi.

Una storia beffarda. Una storia sbagliata.

Nessun rancore. Nessun rimorso.

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